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Vittorio Sgarbi



dal catalogo Antonio Pedretti, Color Palude, 1999



La forza dell'uomo, il suo dolore, il suo potente conflitto con la natura sono e sono stati, per una profonda radice di non eludibile verità, i temi principali della ricerca di Antonio Pedretti. Ci sono pittori per cui l'arte non è un colto ornamento, una declinazione della bellezza, ma un'espressione totale della vita, così totale che brucia la vita, la compenetra in quella materia, necessariamente esterna al corpo della vita, che è la pittura.
È però certo, uscendo dalla leggenda per entrare nella storia, che l'arte romantica, e con essa l'arte moderna, si sia fondata sul sentimento della natura. Dai tempi di Corot, della scuola di Barbizon, degli Impressionisti, l'arte che si è data intenzionalmente come moderna, lo ha manifestato principalmente attraverso la visione emotiva della natura. Con la modernità romantica, con l'affermazione totalitaria del soggetto nell'espressione artistica, non conta più riprodurre la natura così come appare, secondo il vecchio principio della MIMESIS, ma come la si interpreta. Dopo il Post-Impressionismo viene abbandonato il soggetto di natura, considerandolo troppo legato alla tradizione artistica del passato. Si è preferita ad esso la natura artificiale, la creatività di carattere puramente intellettuale (la non figurazione, L'ASTRAZIONE), ad evidenziare la frattura apertasi tra la civiltà industriale e la cultura antropocentrica a cui il nostro passato faceva riferimento. Gli artisti cultori del sentimento della natura sono rimasti sempre più rari, guardati come inguaribili nostalgici, schiavi della retorica più tradizionalista. Mai valutazione potrebbe essere più sbagliata. I cultori del sentimento della natura sono benefattori dell'umanità. Sono pazienti archeologi di qualcosa che sta scomparendo, scrupolosi cacciatori e conservatori di sensazioni di cui i nostri nonni, i nostri avi non potevano fare a meno se volevano dare una ragione concreta alla loro vita. Oggi viviamo nella pericolosa illusione di poter far a meno di quei valori, di non impoverirci qualora ci privassimo di essi. Oggi non è tanto la natura che sta scomparendo, sebbene stia subendo forme di violenza che mai in passato si era osato infliggerle; è l'uomo invece che deve stabilire con essa un rapporto vitale che non sia fugace. Oggi si guarda alla natura come a qualcosa che rimane estraneo rispetto alla nostra esistenza quotidiana. I superstiti cultori del sentimento della natura, i benemeriti ecologisti dello spirito intervengono a questo punto: cercano, ritrovano, raccolgono, talvolta 'museizzano' uno straordinario patrimonio sentimentale di cui stiamo delittuosamente dimenticando i sapori. Lo fanno non per vano anacronismo, ma per aiutarci a vivere meglio, per neducarci, per condividere con loro un'esperienza di grande intensità, di capitale importanza esistenziale. Antonio Pedretti è una vera 'sentinella' del sentimento della natura, guardiano dello spirito del mondo, sacerdote di quella laica religione che è stata una volta di Turner, Constable, Friedrich, Monet, Van Gogh, Gauguin, Cézanne. Pedretti è lombardo, e chi conosce la storia dell'arte italiana moderna sa bene che la scuola pittorica lombarda è stata quella che fra Ottocento e Novecento, più di ogni altra, ha sviluppato in Italia i discorsi paralleli della modernità e del sentimento della natura. Previati, Segantini, De Grubicy, Longoni, Pelizza da Volpedo, Morbelli, ovvero i maggiori portatori della grande innovazione divisionista, sono stati eccezionali cultori del sentimento della natura, sviluppandolo secondo accezioni simboliste che non di rado sfociavano nel terreno del mistico.
Dopo il Futurismo e 'Novecento', dopo la rivoluzione iconoclasta e il rappel a un nuovo stile classico, il ritorno al sentimento della natura si riafferma con tutta la sua forza fra i pittori lombardi attraverso il Chiarismo di Del Bon, Lilloni, Spilimbergo, De Rocchi; e ancora nel Dopoguerra, il 'naturismo' di Morlotti e di Chighine riesce a proseguire nel modo più efficace, conducendo gli iniziali presupposti espressionisti nei termini di un aggiornatissimo eloquio informale. Pedretti è figlio consapevole e rispettoso di questa genealogia artistica, di questa formidabile tradizione lombarda verso un modernismo ancora bisognoso di confrontarsi con la natura.
Non che quello di Pedretti sia un 'naturismo' lombardo privo di profondo radicamento nel suo humus spirituale, un 'naturismo' retrospettivo, citativo, compiaciutamente dedito all'esibizione dell'essere partecipe di una storia artistica già così brillante. Al contrario, Pedretti si sforza di rimettere in gioco la pittura 'di natura', di ridiscuterne l'identità con le evoluzioni, materiali e ideologiche, che ha subito nel frattempo il concetto di modernità. Ne ottiene un discorso lirico di estrema densità ispirativa, ricco di appassionanti investigazioni formali e di intense motivazioni individuali, nel quale il tema prediletto dell'habitat di palude costituisce anche metaforicamente l'approdo a un mutamento di coscienza collettiva che non può più concepire la natura come ai tempi di Segantini o di Del Bon.
Si ha la chiara sensazione, insomma, che per Pedretti l'Arcadia, le Georgiche, le Bucoliche, l'idillio di natura siano cose finite per sempre. La natura a un passo dal Duemila non ha più la funzione primaria di rasserenarci a tutti i costi, di regalarci quegli istanti di esaltazione in cui ci illudiamo di essere in perfetta armonia con tutto l'universo. La natura dei nostri tempi ha acquisito una sua autonomia, una sua logica che non è più strumentale ai nostri bisogni e che proprio per questo motivo si è fatta sfuggente agli uomini, imprevedibile, mai esauriente alle nostre domande. La palude, riscattata da pregiudizi storici che l'hanno voluta luogo di malattia, di pericolo, di dolore, non è diventata un'immagine assolutamente positiva, ma piuttosto quella di una condizione intellettuale assai diffusa nell'epoca post-moderna, la 'stagnazione': uno stato equidistante dalla soddisfazione e dall'insoddisfazione che ci lascia nell'ipotetico sconcerto di chi non ha più certezze, ma che sorprendentemente non provoca in noi particolari frustrazioni. Lontano dalla banalità ottimistica degli ecologisti e anche dai registri del pessimismo leopardiano, Pedretti s'impegna a interrogare la natura e attraverso di essa anche il proprio vissuto, la propria memoria, cercando ragione di strutture che non nascondono affatto le loro intricate articolazioni grafiche, le loro labirintiche complicanze di materia e forma, la loro cronica, genetica disposizione ad accumularsi fisicamente come variantissimi coaguli di sostanza vitale. E più la vis investigativa si fa urgente, più la voglia di dannunziana immedesimazione si fa presente, più la natura fornisce le stesse, impassibili, distaccate risposte. Pedretti espone i resoconti delle sue inchieste con la lucida perizia di una ricerca d'archivio, con la brillantezza di un matematico che ha capito la formula, ma non sa ancora bene a che cosa serva. E tutto chiaro, è tutto comprensibile, ma ci si ferma al quia, allo sfibramento dei massimi principi, perché probabilmente all'uomo non è stato concesso di sapere di più. È una rassegnazione malinconica di carattere certamente moderno, in fondo estraniante nei suoi effetti più duraturi, che però rivela allo stesso modo qualcosa di assai antico, ciò che veniva espresso dall'Et in Arcadia ego. Come se davanti alla natura di Antonio Pedretti tutto il nostro presente, tutto il nostro passato, tutto il nostro futuro ritrovassero miracolosamente il loro ciclico punto di congiunzione. Come se gli uomini, da quando il mondo è mondo, non fossero mai cambiati.



Vittorio Sgarbi

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