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Enzo Fabiani



​dal catalogo Antonio Pedretti, Percorsi naturali, 1994


"In questo caso l'Arno", e di esso poi avendo trattato più e più volte sia in prosa che in rima, e ricordandomi poi giorno e notte di quell'etrusco e annibalico acquitrino mettendolo in contrasto nostalgico con la lombarda 'sighera', cioè la nebbia; essendo io nato, dicevo, in padule, mi sono trovato di colpo davanti a una rappresentazione eccellente quanto commovente di esso: al punto di immaginare che (mi si conceda e perdoni un pò di fantasia) se i pittori etruschi avessero dipinto quei paesaggi, li avrebbero dipinti come Pedretti; e anche che se Annibale, il quale, come racconta Tito Livio, attraversò il Padule di Fucecchio, avesse avuto al suo seguito degli 'artisti illustratori' (come li ebbe Napoleone in Egitto), essi avrebbero dipinto quelle acque, quelle erbe palustri e quelle boscaglie proprio come li dipinge Pedretti!
Il quale, quand'era poco più che ventenne, in occasione di una mostra alla Galerie L'Angle aigu di Bruxelles, venne così presentato da Renato Guttuso: "Caro Pedretti, benché tu sia molto giovane, il tuo lavoro offre già alcuni elementi sicuri per giudicare delle tue doti non comuni. Non si può non essere colpiti dalla sicurezza con cui il tuo segno, le tue note di colore definiscono un paesaggio. una figura, un interno nei suoi tratti essenziali; dal piglio con cui il tuo disegno ha la capacità di penetrare la forma, ad indagarla con precisione, senza cadere nell'analisi minuziosamente accademica. Oggi il tuo lavoro si trova
ad un punto assai serio, e mi pare che i tuoi dipinti recenti contengano elementi nuovi rispetto alla felicità e facilità delle tue precedenti pitture. C'è la coscienza di un impegno nuovo e di nuove difficoltà. E la premessa di un balzo in avanti'.
E il balzo c'è indubbiamente stato, con il ritmo di un camminar sensato, però; durante il quale Pedretti si è preso, direi, le sue belle libertà di sperimentazione tra gestualità e giochi informali, ricorrendo a fogli di pvc o di plexiglass, smalti e resine: come è giusto che un giovane faccia, tenendo sempre presente tuttavia che la vera avanguardia non consiste nel cambiare materiali, ma bensì nella progressiva messa a fuoco del proprio mondo, come è ovvio e risaputo. Ed è quanto Pedretti ha fatto, come rilevava Enrico Crispolti presentando la sua personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara ed affermando che il suo nuovo corso iniziò con 'un vissuto inteso proprio in abbandono totale, non drammatico ma interamente lirico, ad una esperienza che è conoscitiva e affettiva insieme. Equivalendo ad una presa di possesso di una propria più profonda identità, e insomma del traguardo, a suo modo certamente pacificante, di quella solitudine sensitivamente e appunto affettivamente operosa, al quale l'istituzione di una privatezza di dialogo, spontaneamente messa in atto, mi sembra profondamente aspiri, come alla riconquista possibile di un paradiso perduto'.
Un paradiso alla fine trovato nuovamente dunque, ma rimasto sempre vivo nella memoria epperciò e quindi rivisitato minuziosamente e amorosamente contemplato. Se noi osserviamo ad esempio opere quali 'Erbe' del 1989, 'Palude' del 1990, 'Muro bianco' e 'Color palude' del 1992 ci troviamo davanti a campagne inargentate ed acque limpide, a cascate di fiori, a ciuffi d'erba dipinti con grande perizia, con minuziosità fervida, che riescono perfettamente a fonderli in una luce palpitante e quieta in cui ogni elemento conserva le sue caratteristiche naturali, acquistando tuttavia nel contempo un qualcosa di arcano e di misterioso e addiritura di visionario e lievitante. La realtà insomma in questi quadri di Pedretti diventa poesia pur restando fedele a se stessa; la 'veduta' sembra essere quella nativa e naturale, eppure si avverte che un mutamento c'è stato e che il 'miracolo' artistico c'è, come se tutto sia cresciuto grazie a una seconda nascita e viva grazie a una seconda vita.
Nei quadri più recenti, cioè del 1993, mi sembra di notare qua e là una sorta di 'severità' sironiana, dovuta forse anche al fatto che ora dalla palude si va verso la montagna o l'alta collina che ci appaiono, per dirla con Leonardo alquanto ignude e solenni occupando di sé buona parte del cielo. Qui, in un certo senso, il motivo viene, è stato, come allontanato per meglio contemplarlo: tuttavia si nota come anche qui la pittura si sostanzia magistralmente: vorrei dire che in nome di sé essa diventa se stessa lievitando nel contempo la realtà grazie a quel mutamento di cui si è già detto.
E sono quadri davanti ai quali non è affatto necessario rammemorare eventuali agganci o filiazioni, gruppi di appartenenza o di eredità: semplicemente credo sia doveroso dire che Antonio Pedretti è davvero l'inventore poetico di quel 'color palude' (o padule o cielo o fiore o montagna che sia) in quanto ha saputo farlo suo proprio: anche se ovviamente è altrettanto doveroso per lui il ringraziare con la dovuta umiltà 'li maggior sui': tra i quali io metterei per primo il Buon Dio, che inventò fiori ed acque e monti forse pensando proprio ad artisti come il nostro giovane maestro lombardo".



Enzo Fabiani









La dolce Lombardia di Antonio Pedretti

dal catalogo Antonio Pedretti, Galleria Ghiggini, 1993



Mi capita spesso, anzi quasi sempre, quando m'occorre di scrivere della pittura lombarda, di citare il primo verso di una poesia di Dino Campana: 'La dolce Lombardia coi suoi giardini'... Verso d'inizio, e direi di intuizione, di palpito mentale, che purtroppo il grande poeta toscano non seppe o non volle (la civetta della follia gli ballava spesso sulla testa, purtroppo) portare avanti: e difatti i ventotto versi che seguono sono soltanto rapide occhiate sul 'macigno' del Monte Rosa, sui 'pennacchi tremuli delle betulle', su un cielo 'pieno di picchi - bianchi che corrono' e così via, senza una forza poetica lievitante e accensiva.
Comunque sia, basta quel verso a darci il senso profondo e segreto di quel 'giardino di Lombardia' (come leggiamo verso la fine dell'abbozzo) che io ho visto indagato direi con una curiosa mentalità quasi scientifica da vari pittori amici e conoscenti dall'inizio del mio esilio milanese, (che cominciò nel maggio del 1947: persino il giorno in cui lasciai Firenze per venir qui: 27 maggio), tra i quali diversi Chiaristi, eppoi diversi Informali e diversi 'Naturisti'.
A proposito di questo termine, che non ha avuto molta fortuna in verità, ricordo che un giorno della primavera del 1977, Ennio Morlotti ed io facemmo una girata per la Brianza per rivedere insieme i luoghi in cui era nata la stagione più importante della sua pittura; ed arrivati a Imbersago scendemmo al fiume Adda, lì dove c'è il Traghetto leonardesco, ed egli mi mostrò, con occhi luminosi, un punto dell'acqua proprio vicino alla riva dal quale, osservando le ondulanti erbe acquatiche del fondo, gli era nata, mi disse, l'idea della 'pittura naturista', ossia come un groviglio vibrante di forza, un viluppo di dannazione e di ribellione da trasferire in un color forte e prezioso sulla tela: come poi, il maestro lecchese ha fatto sino alla fine dei suoi giorni, con tenacia ora splendida ora monotona ora aggrovigliata: come appunto lo scorrere dell'acqua lombarda gli suggerì quel giorno.
Poi ho visto, anno dopo anno, altri luminosi e splendidi esempi di 'lombardità', come quelli di Giancarlo Cazzaniga, di Sandra Tenconi ed infine dell'eccellente Velasco Vitali, il quale tuttavia se la deve vedere con il Lago e con l'Orrido, abitando in quel di Bellano: deve cioè affrontare un paesaggio più imponente ed esigente, ed ascoltare rumori e urli dell'acqua dannata a premere e correre nelle caverne del monte, e restare abbagliato da una luce metallica che dicesi longobarda.
Bene. Poi ho avuto una sorpresa: ho scoperto la pittura di Antonio Pedretti e subito mi sono sentito portato a un modo di lettura diverso della realtà paesaggistica lombarda; mi sono trovato cioè davanti a un contesto sorprendente innanzittutto per il motivo da lui scelto, sentito e amato con grande tenacia, ovverosia la palude. E qui devo per forza di cose riparlare in chiave personale: essendo io nato nel Padule di Fucecchio (in Toscana si chiama così una grande distesa d'acque, quasi ferme, fitte di vegetazione appunto palustre, che pigri fossi e canali vorrebbero riversare nel fiume maggiore:
in questo caso l'Arno), e di esso poi avendo trattato più e più volte sia in prosa che in rima, e ricordandomi poi giorno e notte di quell'etrusco e annibalico acquitrino mettendolo in contrasto nostalgico con la lombarda 'sighera', cioè la nebbia; essendo io nato, dicevo, in padule, mi sono trovato di colpo davanti a una rappresentazione eccellente quanto commovente di esso: al punto di immaginare che (mi sì conceda e perdoni un po' di fantasia) se i pittori etruschì avessero dipinto quei paesaggi, li avrebbero dipinti come Pedretti; e anche che se Annibale, il quale, come racconta Tito Livio, attraversò il Padule di Fucecchio, avesse avuto al suo seguito degli 'artisti illustratori' (come li ebbe Napoleone in Egitto), essi avrebbero dipinto quelle acque, quelle erbe palustri e quelle boscaglie proprio come li dipinge Pedretti!
Il quale, quand'era poco più che ventenne, in occasione di una mostra alla Galerie L'Angie aigu di Bruxelles, venne così presentato da Renato Guttuso: 'Caro Pedretti, benché tu sia molto giovane, il tuo lavoro offre già alcuni elementi sicuri per giudicare delle tue doti non comuni. Non si può non essere colpiti dalla sicurezza con cui il tuo segno, le tue note di colore definiscono un paesaggio, una figura, un interno nei suoi trattì essenziali; dal piglio con cui il tuo disegno ha la capacità di penetrare la forma, ad indagarla con precisione, senza cadere nell'analisi minuziosamente accademica. Oggi il tuo lavoro si trova ad un punto assai serio, e mi pare che i tuoi dipinti recenti contengano elementi nuovi rispetto alla felicità e facilità delle tue precedenti pitture. C'è la coscienza di un impegno nuovo e di nuove difficoltà. la premessa di un balzo in avanti'. E il balzo c'è indubbiamente stato, con il ritmo di un camminar sensato, però; durante il quale Pedretti si è preso, direi, le sue belle libertà di sperimentazione tra gestualità e giochi informali, ricorrendo a fogli di pvc o di plexiglass, smalti e resine: come è giusto che un giovane faccia, tenendo sempre presente tuttavia che la vera avanguardia non consiste nel cambiare materiali, ma bensì nella progressiva messa a fuoco del proprio mondo, come è ovvio e risaputo. Ed è quanto Pedretti ha fatto, come rilevava Enrico Crispolti presentando la sua personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara ed affermando che il suo nuovo corso iniziò con 'un vissuto inteso proprio in abbandono totale, non drammatico ma interamente lirico, ad una esperienza che è conoscitiva e affettiva insieme. Equivalendo ad una presa di possesso di una propria più profonda identità, e insomma del traguardo, a suo modo certamente pacificante, di quella solitudine sensitivamente e appunto affettivamente operosa, al quale l'istituzione di una privatezza di dialogo, spontaneamente messa in atto, mi sembra profondamente aspiri, come alla riconquista possibile di un paradiso perduto'. Un paradiso alla fine trovato nuovamente dunque, ma rimasto sempre vivo nella memoria epperciò e quindi rivisitato minuziosamente e amorosamente contemplato. Se noi osserviamo ad esempio opere quali 'Erbe' del 1989, 'Palude' del 1990, 'Muro bianco' e 'Color palude' del 1992 ci troviamo davanti a campagne inargentate ed acque limpide, a cascate di fiori, a ciuffi d'erba dipinti con grande perizia, con minuziosità fervida, che riescono perfettamente a fonderli in una luce palpitante e quieta in cui ogni elemento conserva le sue caratteristiche naturali, acquistando tuttavia nel contempo un qualcosa di arcano e di misterioso e addirittura di visionario e lievitante. La realtà insomma in questi quadri di Pedretti diventa poesia pur restando fedele a se stessa; la 'veduta' sembra essere quella nativa e naturale, eppure si avverte che un mutamento c'è stato e che il 'miracolo' artistico c'è, come se tutto sia cresciuto grazie a una seconda nascita e viva grazie a una seconda vita. Nei quadri più recenti, cioè del 1993, mi sembra di notare qua e là una sorta di 'severità' sironiana, dovuta forse anche al fatto che ora dalla palude si va verso la montagna o l'alta collina che ci appaiono, per dirla con Leonardo alquanto ignude e solenni occupando di sé buona parte del cielo. Qui, in un certo senso, il motivo viene, è stato, come allontanato per meglio contemplarlo: tuttavia si nota come anche qui la pittura si sostanzia magistralmente: vorrei dire che in nome di sé essa diventa se stessa lievitando nel contempo la realtà grazie a quel mutamento di cui si è già detto. E sono quadri davanti ai quali non è affatto necessario rammemorare eventuali agganci o filiazioni, gruppi di appartenenza o di eredità: semplicemente credo sia doveroso dire che Antonio Pedretti èdavvero l'inventore poetico di quel 'color palude' (o padule o cielo o fiore o montagna che sia) in quanto ha saputo farlo suo proprio: anche se ovviamente è altrettanto doveroso per lui il ringraziare con la dovuta umiltà 'li maggior sui': tra i quali io metterei per primo il Buon Dio, che inventò fiori ed acque e monti forse pensando proprio ad artisti come il nostro giovane maestro lombardo.



Enzo Fabiani

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